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Elogio del dolore

Sto leggendo un libro sulla paternità , un libro divertente e fuori dagli schemi.
Il libro si intitola ‘Manuale di sopravvivenza del padre contemporaneo (diventare pa³ in poche, oculate mosse)’.
In un libro del genere non può mancare un racconto di gravidanza e parto vissuti dal punto di vista del padre. Leggendo espressioni mediche come ‘monitorare il feto’ o ‘sofferenza fetale’ mi sono tornati alla mente una serie di aneddoti e anche le famigerate espressioni ‘medicalizzazione della gravidanza’ e ‘medicalizzazione del parto’ ascoltate nel corso di qualche incontro del corso pre-parto a cui ho assistito.
L’ostetrica che teneva il corso pre-parto sponsorizzava fortemente il parto in casa sostenendo che è più umano rispetto al parto in ospedale e che i medici non servono a meno che la gravidanza non sia stata problematica, in fondo si è sempre fatto così, eccetera. Sosteneva anche che il dolore è una parte importante dell’esperienza: il parto cesareo o anche solo il parto in analgesia priverebbero le donne di questo elemento fondamentale che servirebbe a preparare la donna ad affrontare le difficoltà  dell’esperienza genitoriale. Grande ottimismo. Io, che se fossi donna opterei per il cesareo o almeno per l’analgesia, mi chiedevo quali statistiche dimostrino che le donne che hanno sofferto nel parto si sono dimostrate mamme migliori.
Un approccio simile si applicava alla gravidanza: la gravidanza non è una condizione patologica e non va gestita come tale (e fin qui siamo d’accordo), tante ecografie ed esami di diagnosi prenatale perturberebbero l’esperienza ‘medicalizzandola’.
Oltre ad essere in disaccordo su quasi tutto, non mi tornava il fatto che tutto ciò accadesse in un corso organizzato dalla ASL.

Non sono un sostenitore della medicalizzazione di alcunché, bisogna però cercare di avere un punto di osservazione obiettivo: la medicina ha contribuito ad allungare le nostre aspettative di vita oltre che a salvare vite. Se non è più così di moda morire di parto bisogna ringraziare la scienza medica ed i medici che la applicano, le strutture ospedaliere, eccetera.
Tempo fa ho dato un’occhiata a qualche statistica: il numero di ecografie che mediamente vengono eseguite durante la gravidanza è in aumento, lo stesso vale per le diagnosi prenatali (effettuate soprattutto dalla popolazione con un grado di istruzione più elevato). E’ in aumento il numero di parti cesarei e di parti naturali in analgesia. Per finire è in aumento anche il numero di neonati sani. Ci sarà  mica qualche relazione?
Prima che qualcuno tragga conclusioni infondate (aumento diagnosi prenatali + aumento di neonati sani = i neonati non sani vengono abortiti) faccio notare che l’interruzione volontaria di gravidanza che è in calo dal 1982, poco dopo la sua legalizzazione.

Non si tratta, a mio parere, di trattare la gravidanza come una condizione clinica ma solo di fare quello che è possibile e ragionevole fare per prevenire problemi. L’ecografo non serve a far sentire la donna ‘medicalizzata’, semmai è un fantastico strumento per spiare il pargoletto mentre si succhia il dito, osservare il profilo del suo nasino e ascoltare il battito del suo cuore, vederlo trasformarsi da pallina informe in cucciolo di umano.
Le parole ‘monitoraggio’ o ‘sofferenza fetale’ disturbano? I medici usano termini medici, è semplicemente normale: le parole servono per comunicare e i termini medici servono ad identificare in modo univoco determinate condizioni. Sono solo parole. ‘Il pargoletto sta male’ è forse una espressione più bella rispetto a ‘sofferenza fetale’? Entrambe le espressioni indicano una condizione che vorresti affrontare con assistenza medica piuttosto che in casa, o no?
Riguardo al ruolo positivo della sofferenza nel parto rispetto le convinzioni di ciascuno, purché sia chiaro che si tratta di pure convinzioni. Almeno finché qualcuno non porta dati oggettivi a sostegno di queste teorie.

Cosa c’è alla radice di questa logica che porta ad un apparentemente irrazionale (e magari non solo apparentemente) rifiuto di un qualcosa che ha portato risultati positivi, oggettivi e misurabili?
Il fattore principale, a mio parere, è che viviamo in una società  che ancora non ha fatto suo il concetto di prevenzione: l’ospedale e il medico sono associati alla malattia. Dato che la gravidanza è una condizione normale e positiva, frequentare medici nel corso della gravidanza e partorire in ospedale (o ancor peggio con un parto operativo) la fa associare ad una condizione patologica e negativa. Se il parto non è una condizione patologica non voglio medici intorno. Contorsioni mentali.
Il vero problema però è che viviamo in una società  nella quale alcuni ritengono che le proprie convinzioni su temi etici debbano automaticamente essere imposte a tutti. Succede quindi che in alcune strutture ospedaliere (a volte in tutte le strutture di una certa area) non si pratica analgesia, cesarei, o induzione (neanche su richiesta della donna) se non in casi veramente critici (con conseguenze a volte tragiche).

E’ principalmente la paura del dolore a far scegliere a molte donne il parto cesareo, questo è probabilmente uno dei motivi per cui il numero di parti cesarei è in aumento. Nell’ospedale in cui è nata Chiara la tendenza è stata invertita: il numero di parti cesarei è stato ridotto grazie al fatto che alle donne viene offerta la possibilità  di fare un parto naturale con analgesia (generalmente epidurale). La richiesta della donna è sufficiente perché l’analgesia venga eseguita, o quasi.
Il quasi deriva dal fatto che il parto in analgesia non è ufficialmente offerto dalla struttura ospedaliera ma è una meritevole iniziativa personale di alcuni ginecologi con la collaborazione di un anestesista dell’ospedale.
La cosa paradossale è che l’organizzazione è efficiente ma gestita in modo autonomo e volontario da ginecologi e anestesista. L’incontro tra l’anestesista (il bravissimo dott. Montanari) e le coppie interessate all’analgesia, per fornire loro le spiegazioni e le informazioni necessarie a fare una scelta consapevole, si è svolto dietro appuntamento informale in una saletta del reparto di rianimazione e mi ha dato quasi l’impressione di riunione di cospiratori.
L’anestesista si rende disponibile ogni qualvolta una donna richieda l’analgesia ma, siccome lavora in rianimazione, bisogna che questo accada quando lui non è impegnato. Spesso si rende disponibile anche nei festivi e quando non è in servizio (come nel caso di Barbara) ma in questi casi non c’è alcuna garanzia. Questo è il motivo per cui la tendenza è quella di programmare il parto qualche giorno prima della scadenza (se ci sono le condizioni per farlo) e fare un’induzione: per garantire la presenza dell’anestesista alla donna che lo desidera.

Nel caso di Barbara non c’erano le condizioni perché la marmocchia non aveva fretta e il collo dell’utero non si accorciava, quindi si è dovuto aspettare dopo la scadenza della 40 settimane. Siamo finiti a ridosso delle festività  natalizie ed è capitato che le contrazioni sono arrivate la sera del 25 dicembre: anestesista indisponibile fino alla mattina successiva. L’anestesista è arrivato alle 9 di mattina (comunque era un giorno festivo e lui non era in servizio) dopo circa 12 ore di travaglio mentre Chiara è nata intorno alle 12.30. Avendo vissuto (da spettatore, ma piuttosto coinvolto) il travaglio per tante ore senza analgesia e le ultime ore con analgesia sono un valido testimone di quanto le due esperienze siano distanti anni luce una dall’altra. Altro che vivere appieno l’esperienza: l’analgesia umanizza il parto, consente alla donna di viverlo pienamente, coscientemente e civilmente. Barbara, che nonostante la lunga sofferenza è riuscita a mantenere una lucidità  tale da mandare a quel paese l’ostetrica che le ricordava come quel dolore le avrebbe permesso di immedesimarsi nel ruolo di mamma, nel giro di pochi minuti è tornata ad essere la Barbara di sempre e abbiamo trascorso le ultime ore in modo estremamente sereno: parlando, scherzando, ascoltando musica, facendoci anche qualche foto. In sala parto, tra una contrazione e l’altra, la partoriente con le sue battute faceva ridere gli astanti.

Altro motivo che, se mai avessi avuto idee strane, mi avrebbe convinto dell’opportunità  di partorire in ospedale è che Chiara era grandina e non si era preoccupata di collaborare posizionandosi al meglio. Tirarla fuori ha presentato qualche difficoltà  tanto che dopo il parto la pediatra che l’ha visitata, constatando che le scapole erano intere, si è congratulata con l’equipe. Questa era una di quelle difficoltà  che si presentano all’ultimo momento dopo una gravidanza liscia come l’olio. Non avrei voluto affrontarla in casa senza altro supporto che un’ostetrica.

A proposito di ostetriche. Proprio questa sembra essere la categoria (non sono tutte così, fortunatamente) che conta più sostenitrici del parto in casa. Eppure, come i medici, lavorano in ospedale e vivono quotidianamente la realtà  del parto. Perché due visioni così distanti?
Da una intervista ad una ostetrica trovata qui:
Le donne hanno delegato la loro competenza nel partorire al medico, alla tecnologia, all’ospedale. Le ostetriche hanno delegato la loro professionalità , manualità , sapere antico e hanno perso la loro autonomia professionale.
Adesso incomincio a capire da dove arriva questa opposizione.
Nella stessa intervista si arriva a fare affermazioni palesemente false come il dichiarare che è scientificamente provato che è più sicuro partorire in casa.

Per concludere, quello che ho imparato da questa esperienza è che ogni struttura ospedaliera ha un proprio approccio ed è bene chiarirsi le idee in anticipo riguardo quello che si desidera , in base alle proprie aspettative bisogna informarsi bene prima di scegliere dove far nascere il proprio erede.

Trovo che l’approccio dell’ospedale in cui è nata Chiara sia esemplare (o almeno lo sarebbe se solo l’analgesia fosse garantita):
– Le sale travaglio sono molto accoglienti, alcune sono ammobiliate come una stanza d’albergo, una è dotata di vasca per il parto in acqua, sono attrezzate per ascoltare musica.
– Il parto si svolge in sala parto solo in casi che presentano qualche difficoltà  (come quello di Barbara), altrimenti si resta in sala travaglio.
– Appena il moccioso salta fuori viene adagiato sul ventre della mamma per incominciare a fare conoscenza (Barbara: ‘ma è scura!’, io: ‘e perché credi che io stia piangendo?’), intanto si svolgono le pratiche di taglio cordone. Mi è stata offerta la forbice per il ‘varo’ ma l’ho rifiutata (ufficialmente perché non apprezzo certi riti tribali, in realtà  perché ancora provato dagli ultimi istanti di quello che mi pareva un remake di Alien).
– Dopo la nascita il papà  assiste alla prima visita e al lavaggio, il bimbo viene vestito e torna immediatamente con i genitori nella sala travaglio nella quale sono liberi di restare soli per le ore successive.
– Il marmocchio viene lasciato sempre in camera con la mamma che è comunque libera di spedirlo in nursery quando desidera prendere fiato.
– Il papà  può entrare e uscire dal reparto quando vuole (ho anche dormito in ospedale quando c’era un letto disponibile), gli orari delle visite di amici e parenti invece sono regolamentati (cosa molto positiva).

Conclusione: altro che vivere appieno l’esperienza grazie al dolore. Il dolore aiuta a crescere e prepara ad affrontare le difficoltà  della vita? Ai sostenitori di questa tesi consiglierei di provare a vivere appieno l’esperienza di un intervento chirurgico senza anestesia, magari un intervento ortopedico.

4 commenti su “Elogio del dolore”

  1. Purtroppo in Italia dobbiamo convivere con il retaggio sottoculturale e compiacente di chi cerca di trovare applicazioni a quel vecchio libro fantasy dal nome di Bibbia.
    Quanti dolenti su un letto di ospedale hanno dovuto patire: altro che il conforto religioso!!!!!!
    Il caso Eluana chiarisce poi quando innaturale ed immorale sia poi l’approccio…
    Come al solito a rimetterci sono quelli che non possono parlare!

  2. Mio figlio Lorenzo, 5 anni, à© nato ad Heidelberg, Germania. Il corso pre-parto à© stato molto utile per noi genitori. Alune lezioni sono state svolte all’Università¡ di medicina dovi ci hanno spiegato il parto cesareo, diversi tipi di anestesia (tra cui l’epidurale) e quali rischi sono associati. Inlotre ci hanno fatto fare alcune visite degli ospedali e delle cliniche di zona (private e non) con diverse strutture e metodologie di parto cosi da poter scieglierela piu adatta alle proprie esigenze (in alcuni casi l’ospedale à© obbligatorio).
    In Germania sono molto organizzati ed attenti a queste cose: dopo la nascita del bimbo e per i successivi 10 gironi, veniva a domicilio per un’oretta al giorno un’infermiera per aiutarci nei primi passi: medicazione dell’obelico, il primo bagnetto etc.
    Da far notare perà³, che in Germania il tutto funziona grazie alle assicurazioni mediche. Il parto cesareo di Lorenzo à© costato circa 4000 euro e la degenza il camera circa 120 euro al giorno.
    Mi figlia Alice, 3 anni, à© nata all’ospedale di Jesi, Ancona, anche lei con un cesareo e non abbiamo dovuto pagare niente.

    Una coppia di amici italiani che vive in Olanda mi ha raccontato che il parto spesso evviene in casa (su rischiesta dei genitori) o il macchina :-)) si perchà© non si puà³ andare in ospedale fin tanto che non si ha l’OK dell’infermiera che viene a domicilio a controllare la dilatazione del collo dell’utero. Praticamente si rimane a casa fino a poche ore prima del parto.

    Della serie….paese che vai usanze che trovi.

  3. Post interessantissimo, che dimostra anche che sei molto ben informato sull’argomento.
    Condivido il 95% di quanto dici, e sulla parte che non mi sento di condividere pienamente (il tentativo di eliminare totalmente il dolore, come ad esempio ricorrendo al cesareo quando non necessario per ragioni mediche) preferisco non prendere posizione “dura”, in quanto sono cose troppo personali…
    Un grosso saluto,
    Andrea

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